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E' solo la fine del mondo.



Louis è un drammaturgo affermato che da dodici anni vive lontano da casa.

Se n’è andato così, chiudendosi la porta alle spalle, senza dare spiegazioni. Un giorno torna a casa con un segreto da svelare, un segreto triste, che pesa come un macigno.

Lo spettatore sa che Louis sta morendo, ed è per quel motivo che è tornato a casa. Ad attenderlo, al suo rientro in famiglia, troverà Suzanne, la sorella minore che non ha mai visto crescere, fumatrice assidua di cannabis, che ha costruito un immagine idealizzata del fratello attraverso i racconti della madre, Antoine, il fratello maggiore (interpretato magistralmente da Vincent Cassel) estremamente rancoroso e astioso verso di lui, che si sente minacciato dal ritorno del figlio prediletto, Catherine, la cognata che ancora non ha conosciuto, donna che esprime le sue verità balbettando ma che sarà l’unica ad intuire del segreto ed infine la madre, per nulla preparata al ritorno del figlio.

Quella che appare in scena è una famiglia di cui non conosciamo con certezza la storia, possiamo solo intuirla e immaginarla. Il padre ad un certo punto è scomparso o è morto e la madre non è riuscita a tenere insieme il nucleo familiare.

L’unica cosa certa è che siamo di fronte ad una famiglia in sofferenza, che comunica in modo disfunzionale. Tutti parlano, urlano, si arrabbiano, cercano di farsi sentire, invano. Sono tutti troppo occupati ad esibire sé stessi per riuscire ad entrare in ascolto e in contatto con l’altro, per accoglierne la sofferenza.

È solo la fine del mondo, sesto film di Xavier Dolan, Gran Premio della giuria a Cannes, si consuma intorno al tavolo e dentro le stanze. Se le parole sono prive di significato è sui volti e sugli sguardi che appaiono il dolore e il risentimento. Nei primi piani, si materializzano i pensieri ed emerge quello che i personaggi non riescono a dire nemmeno a sé stessi.

È solo la fine del mondo annuncia la fine di un mondo, quello di questa famiglia e del suo dolore che ha coinvolto tutti, nessuno escluso. Dolan mette in scena un dramma greve il cui tempo è scandito da un orologio a cucù una sorta di deus ex machina finale e che pone lo spettatore di fronte ad un paradosso dove sono i silenzi che parlano, che danno spessore ad un film in cui uno dei difetti è proprio la sua verbosità.

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